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Quella mattina si era svegliato perché dalla persiana entrava troppa luce, altrimenti forse avrebbe continuato a dormire sino al pomeriggio. Era andato in bagno scalzo e si era infilato un dito nell’ombelico e poi lo aveva annusato. Puzzava, cazzo. 
 Aveva pisciato seduto, poi aveva fatto le solite cacchette da capretta stitica. Odiava il suo corpo, bianchiccio, troppo magro, con le spalle a spigolo. Si guardò allo specchio. Non sapeva più come fare per ingrassare, per avere un torace più attraente, per sentirsi più forte. Aveva provato a mangiare le chiare d’uovo ma aveva finito col vomitare e perdere altri chili. Ci aveva provato un paio di volte e poi era passato alle bistecche giganti, ma non bastavano era troppo secco. Si rimpinzava di patatine fritte e maionese tutte le sere, alla fine si sarebbe ritrovato con il colesterolo alle stelle e gli sarebbe venuto l’infarto. 
Ventisette anni e una vita di merda. Andò in cucina e mangiò una fetta di pane del giorno prima con burro e sale aspettando che fosse pronto il caffè. Beveva litri di caffè all’americana ed era sempre nervoso.
Ogni giorno pensava che fosse il giorno giusto quello per cominciare a fare qualcosa che avrebbe cambiato tutto. Ma poi non succedeva niente. Cosa avrebbe potuto fare? Aveva solo ventisette anni e una vita di merda in un appartamento squallido. 
Il suo ombelico aveva un’infezione doveva assolutamente metterci la crema antibiotica. 
Cercò nel cassetto, la trovò, si spalmò il dito e lo infilò nell’ombelico. Bruciava un po’. 
Era una cazzo di giornata di sole, sarebbe potuto uscire e forse si sarebbe messo la maglietta rossa che aveva appena comprato. Poteva andare dal barbiere a sistemarsi i capelli e poi passare in palestra per parlare di nuovo con il coach, quelle pastiglie che gli aveva dato non funzionavano, non si sentiva né più rilassato né più riposato. Le notti proseguivano insonni, inutili e lunghe. Le mattine diventavano riposo e i pomeriggi tragici risvegli. 
Il rincoglionimento stava prendendo il sopravvento, non c’era pace. Non era certo così che si era organizzato. Il programma iniziale prevedeva: lavoro, palestra e divertimento. 
A proposito, che fine aveva fatto Rosy? 
L’ultima volta che si erano visti, ah che disastro! Il suo magnifico pisello, l’unica parte del suo corpo che non voleva cambiare, si era afflosciato proprio sul più bello. Ma non si era fermato e gliela aveva leccata a lungo, talmente a lungo che quasi gli si era bloccata la mandibola. 
Poi l’aveva abbracciata, non tanto per amore ma per ricevere i dovuti ringraziamenti e complimenti. E mentre stava per addormentarsi lei gli aveva dimostrato tutta la sua gratitudine con un pompino da sballo. Dopodiché era piombato in un sonno talmente profondo da fargli credere di essere morto, lo aveva svegliato quello stronzo del vicino per una bolletta della luce delle scale che si era dimenticato di pagare. 
Rosy non c’era più, era andata via. Non aveva nemmeno scritto il solito biglietto. Aveva una strana sensazione, forse lo aveva lasciato? 
Mentre indossava la maglietta rossa provò a chiamarla al cellulare, nessuna risposta. Prese le chiavi, s’infilò un orrendo paio di sandali “sportivi” - aggettivo che usava quasi a giustificarsi - ed era uscito. Faceva un caldo boia. Se n’era dimenticato, a casa aveva il condizionatore sempre acceso. Il caldo gli tolse il respiro. 
Umido. Appiccicoso. 

Scese per via Toledo verso il mare, aveva bisogno di prendere un respiro, di sentirne l’odore, di vedere il blu. Passò sotto il sole bianco in Piazza Plebiscito e poi fece tutta la discesa a passo veloce, attraversò la strada e si sedette sul muretto del lungomare. Il mare lo riappacificava con tutto e con tutti e soprattutto con se stesso. Poteva sopportare quel corpo appeso e avrebbe potuto sopportare anche di essere lasciato, ma non poteva restare lontano dal mare. In quel momento squillò il cellulare, era Rosy.

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