dentro

Stavo lavorando in carcere per realizzare un progetto con le donne recluse è così che conobbi Tania, una ragazza minuta e molto giovane. All’inizio la scambiai per un’educatrice della cooperativa, l’avevo sempre vista laboratorio col camice bianco e con quel suo aspetto da liceale non la pensavo una carcerata. Le altre donne del carcere avevano visi più vissuti, più duri attraversati da strade piene di sassi e segnate da un sole troppo forte. 

Tania era dimessa, pettinata, piccolina, un po’ timida, educata. Poi lavorando insieme ci conoscemmo meglio e un giorno, nell’orto del carcere mi raccontò la sua storia e ne rimasi stupefatta. Mi disse in un italiano quasi perfetto: 

“Vivevo a Praga, una città bellissima che sembra uscita da una fiaba, con un castello, un fiume, un grande ponte, una piazza con grandi palazzi. E lavoravo proprio vicino alla piazza in un locale chiamato La Rana Verde, era la vecchia casa del boia che tagliava la testa ai condannati a morte, ma nulla ricordava questo fatto macabro. Era un posto bello con il soffitto a volte in cui riecheggiava bellissima musica classica e si servivano fantasiose tartine, roast-beef e insalata russa. Ero abbastanza contenta perché si guadagnava bene e non era troppo faticoso, non era come nelle birrerie fumose e rumorose in cui si deve trottare e si finisce sempre troppo tardi. Avevo un paio di amiche con cui uscivo qualche sera. A Praga ci sono ragazze bellissime, alte con i capelli lunghi, prosperose e con le gambe lunghe. Anche io avrei voluto essere così, avrei voluto essere come le donne di Mucha, flessuose e con i capelli rossi. Invece sono piccola e i miei capelli sono di un biondo sbiadito. Avevo qualche ragazzo che mi girava intorno, ma non avevo mai provato un grande amore, una passione. Un giorno - maledetto quel giorno - arrivò alla Rana Verde un italiano molto appariscente, decisamente bello, io e le mie amiche li chiamavamo uomini “basilico”, gli italiani con gli occhi verdi e i capelli scuri. Indossava la giacca, mi sono sempre piaciuti gli uomini eleganti. Mi chiese come mai sul menu ci fossero dei numeri e gli spiegai che si trattava del numero delle tartine e il relativo prezzo, lo rassicurai che sarebbero state piccolissime. Lui sorridendo mi disse ‘Come te?’. Non mi offesi, anzi trovai dolce il modo in cui lo disse. Così cominciò la nostra storia, una brutta storia. Feci l’amore con lui e fu sconvolgente, diventai dipendente dal suo corpo, ne avevo bisogno continuamente, lo desideravo ogni giorno. Mi baciava sulla bocca anche per due ore di seguito senza sfiorarmi e questo mi faceva impazzire. 

Un giorno feci con lui una cosa che non avrei mai pensato di poter fare…”

Tania si fermò, ebbe un attimo di esitazione e capii che mi avrebbe raccontato i crimini che aveva commesso, sembrava vergognarsene molto. 

“Andammo in macchina a Budapest, nascosta sotto il sedile c’era molta droga e al ritorno molto danaro. A Praga comprammo tanto caviale russo di contrabbando e mi convinse a tornare con lui in Italia. Lasciai tutto, amici, lavoro, famiglia. Scrissi una lettera a mio padre, la mia famiglia viveva in campagna fuori Praga, scrissi semplicemente che andavo via per un po’. Non avrei mai potuto dirglielo in faccia, per lui era impensabile andare via con un uomo senza sposarlo.

Arrivammo a Mestre alle quattro del mattino, avevo dormito per metà del viaggio. Ci fermammo a bere caffè in un distributore di benzina. Fu in quel momento, lì fra l’odore di benzina e le auto, che ebbi l’intuizione che quello fosse un uomo ortica e non basilico, che fosse marcio e subdolo. Fece una telefonata al cellulare e capii che c’era un’altra donna, mi diede le spalle mentre parlava. Arrivammo in via Piave in un appartamento al terzo piano, anonimo ma non brutto. Mi lasciò dei soldi e se ne andò. Stette via tre giorni e io mi disperai, ero sola in un paese sconosciuto di cui non parlavo nemmeno la lingua, solo qualche parola. E soprattutto non sapevo chi fosse quell’uomo. 

Tornò dicendo che saremmo presto ripartiti per un altro viaggio. Dopo qualche giorno infatti caricammo la macchina con delle valigie pesantissime, non sapevo cosa ci fosse dentro ma potevo immaginarlo. Te la faccio breve, trafficava in mille cose illegali ed era molto ricco. Era stronzo, maschilista e grande scopatore.  Non era l’uomo che sognavo, non poteva esserlo per nessuna. 

Molto tempo dopo, quando si accorse che non lo amavo più, cominciò a picchiarmi e a chiedermi cose ignobili. Avrei dovuto andarmene, ma ero bloccata dalla paura, ero senza i miei documenti, senza soldi, avrei dovuto chiamare mio padre ma provavo una vergogna senza fine. Una sera mi picchiò e poi mi costrinse a succhiarglielo mentre mangiava e guardava la tv. Era un animale, senz’anima. 

Un giorno portò a casa altre valigie che doveva trasportare, ne aprii una, c’erano molte armi. Presi una pistola, la caricai. Lo sapevo fare perché andavo sempre a caccia, nei boschi, con mio padre. Quando più tardi mi chiese di succhiarglielo mi chinai sotto al tavolo e gli sparai sull’uccello, tre colpi. Poi aspettai. 

Arrivò la polizia. Lui è morto e io sono qua”. 

Quando Tania finì la sua storia io avevo la bocca spalancata. Lei, che aveva parlato senza ombra di emozione sino a quel momento, cominciò un pianto sommesso. Io provai ad abbracciarla, ma lei si scostò.

Non ne abbiamo più parlato, il martedì e il giovedì ci vediamo, lei è molto brava con l’orto e ogni tanto guarda verso la laguna e immagino pensi al fiume della sua città, al ponte di mattoni, al castello e a una donna rinchiusa in prigione dal destino.

(si tratta di un racconto inventato e ogni riferimento a fatti, nomi, persone è puramente casuale)




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